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I Fratelli Bortoli


Per la raccolta "Eroi Domestici" di Antropia Edizioni: I FRATELLI BORTOLI



I FRATELLI BORTOLI


Il mio nome è Sebastiano Cristian Bortoli. Sono nato nel 1979 in un paesino di poche anime durante un inverno mite.
Ho studiato molto, continuo a studiare tutt’ora, mi piace sapere le cose, conoscerle e capirle. Non mi piace stupirmi davanti alle improbabilità, preferisco arrivare preparato e conscio di quello che succede o potrà succedere, perciò amo calcolare, pianificare, analizzare i concetti e le situazioni.
Quando avevo sei anni sapevo già scrivere e leggere in maniera fluente, conoscevo diverse tecniche natatorie, i primi rudimenti di chimica, ero già a conoscenza del mondo dei numeri relativi e avevo letto buona parte delle opere di Salgari.
Mica come mio fratello.
Mio fratello ignora la maggior parte degli eventi che accadono attorno a lui, non si cura di niente e nelle conversazioni tende a parlare solo di donne e di calcio, elencando i componenti di squadre a me sconosciute ma per lui eroi dai poteri eccelsi: cavalieri dal magico dribbling o semidei dalle parate rocambolesche.
Provo a istruirlo.
Si ribella.
Scuote la testa convulsamente e canticchia sopra le mie parole una nenia straziante che mi dicono poi essere il gingle d’entrata dei tronisti in Uomini e Donne di Maria De Filippi.
Lo odio per questo.
Odio la sua superficialità, il non andare ad approfondire ciò che lo circonda, non scavare, non rendersi curioso; preferisce rimanere a galla facendo il morto a pelo del mare della conoscenza.
Mi irrita il suo semplice essere.
Ha sempre una battuta pronta, la frase stereotipata da riferire e una sua precisa opinione sulla condizione meteorologica; ciò lo fa amare dalla gente, che ride alle sue battute e ci conversa piacevolmente.
E io rimango pubblico davanti a questo scempio.
Pubblico costante e costretto.
Sempre insieme.
Questa è la mia maledizione.
E’ mio fratello.
Non condividiamo solo il sangue.
Ma anche buona parte dell’ apparato: circolatorio, digerente, endocrino, riproduttivo.
Tutto, carne e ossa compresi.
Siamo gemelli siamesi.
Scherzo del destino.
Un corpo con due teste, due menti distinte, incollate grazie ad un gioco macabro su un unico tronco umano.
E poi mi chiedono se credo in Dio?
Sì, Lo credo un fottuto bastardo.



In paese sono  abituati a noi. Solo qualche turista impreparato reagisce male alla nostra vista, ma dopo un paio di giorni ci offre una birra al bar e dopo una settimana vuole farsi una foto accanto a noi.
Provo repulsione per gente del genere.
Ma mio fratello accetta di buon grado di farsi fotografare, magari spillando dieci euro a scatto ai più allocchi.
Non mi dà mai la mia metà che mi spetta. E non glieli chiedo neanche. Sono soldi sporchi grazie alla nostra maledizione genetica.
Ogni giorno mi immagino la mia vita senza di lui, senza avere accanto al mio orecchio destro un’ eminente testa di cazzo, opposta al mio essere, nemesi assoluta del mio io e di ciò in cui più credo.
Oltretutto lui è sempre stato più bello di me.
Alla nascita durante il nostro travagliato parto cesareo, in sala era di turno un’ infermiera poco preparata e decisamente impressionabile, che al momento di porgerci nell’incubatrice ebbe un mancamento e ci fece cadere.
E noi cademmo, fratelli dannati.
Atterrammo sulla mia faccia, stravolgendomi i connotati per sempre: troppo piccolo e debole per un’operazione di chirurgia plastica e poi troppo cresciuto in seguito per poter rimediare.
Sennò avrei avuto anch’io il bel faccino di Cristian.
Lui bello e io dal volto scombinato.
Ma ormai ci ero abituato.
Sono sempre stato il brutto e antipatico.
Il nostro nome intero è Sebastiano Cristian Bortoli. Io sono Sebastiano e quel disgraziato di mio fratello Cristian. A me alle elementari chiamavano Sebastianoleccamilano e lui lo chiamavano IlmiticoCri. Lui assomiglia vagamente a Francesco Totti, io invece ricordo di più un quadro di Picasso.
E non del suo Periodo Blu.



Non so quando mi venne in mente.
Forse durante uno dei nostri ultimi controlli di routine.
Durante una visita neurologica il medico mi stava visitando e mio fratello – che non sa mai stare zitto – aveva esordito: “Beh, già che ha visitato Seba perché deve visitare anche me? Intanto non cambia molto”esclamò balordo, dandosi un tono da saputello di terza elementare.
Lo specialista gli spiegò che i nostri crani erano davvero due entità separate, fisiologicamente e mentalmente. Eravamo un caso particolare ci spiegò. Anche in caso di morte di uno dei due, l’altro avrebbe potuto vivere in salute, con il dolore nel cuore, ma in salute.
Un’ epifania.
Un’ illuminazione.
Eureka.
La soluzione mi era stata davanti per anni, e solo ora la coglievo.
Avrei ammazzato mio fratello.
E sarei stato finalmente libero.



Avvelenamento?
No, figurati, abbiamo lo stesso stomaco.
Tragico incidente?
Rischierei di farmi male anche io e poi con i precedenti funesti, sarebbe di nuovo la mia faccia a rimetterci.
Potrei piantarli un cacciavite nell’ orecchio.
Però poi sarebbe omicidio premeditato.
Approfittare mentre dorme e praticargli una lobotomia.
Ma ha il sonno troppo leggero.
Devo analizzare tutto per bene, ogni singolo elemento in gioco, sviscerare qualsiasi eventualità, e so che ci vorrà un po’ di tempo, ma di tecniche assassine ne so ben poco. Mi sono concentrato più su altri aspetti della morte, come la rianimazione e la farmacologia di base.
A simili progetti pensavo mentre stavamo andando a fare la spesa.
Stavo valutando tutti i metodi possibili, prendendo in esame ogni variabile, studiando ogni singola mossa come in una partita a scacchi contro un cervellone di origini cino-russe.
Ormai erano passati tre mesi dalla visita neurologica, in questo periodo ero stato assorbito completamente dai miei piani machiavellici e talvolta mi perdevo nei pensieri.
Cristian non immaginava niente.
Ultimamente era diventato più taciturno, ma gli succedeva ogni volta che aveva una grossa cifra da spendere. Avevo visto  che quando passava una macchina di grossa cilindrata faceva una specie di guizzo con le guance e per casa avevo notato che erano spuntate un po’ di riviste di auto.
Un essere davvero semplice.



Eravamo in cassa quando la Signora Marcon è entrata di corsa.
Ansimava.
“La piccola Marini è caduta nel pozzo di San Frediano”
La guardai indifferente.
Ilenia Marini non era quel che si diceva una bimba dolce, anche se la domenica era sempre accanto al parroco a servire messa come chierichetto.
Conoscevo San Frediano.
Avevo studiato il piccolo sistema di grotte poste sotto il pozzo. Avevo passato molti pomeriggi a memorizzarne le insenature mentre Cristian guardava Beautiful.
“Pensano che sia caduta nel pozzo e poi ha preso paura e si è rifugiata nelle grotte. I pompieri non riescono a trovarla, la chiamano, ma non risponde”.
Non sapeva se piangere o urlare.
Il negozio la stava a guardare, incredulo.
Eravamo tutti ammutoliti.
Anche Cristian.
Poi sentii il cuore battere forte.
E non ero io ad accelerarlo.
“Andiamo noi a cercarla”.
Un passo avanti, che non mi sono neanche reso conto di fare.
Gonfiò il nostro petto.
“Cosa?” biascicai.
“Conosciamo le grotte. Andiamo noi giù”.
Io le conosco in caso, lui non saprebbe distinguere una stalattite da una stalagmite.
Ci mettemmo in macchina.
 “Mi hai sempre chiesto di andarle a visitare, ti ricordi? Prendiamo due piccioni con una fava: ci facciamo un giro e salviamo Ilenia. I fratelli Bortoli eroi del paese!”.
Sorrisi.
Era la prima volta che facevamo qualcosa davvero insieme, senza compromessi o baratti.
“Wow” mi trovai a sussurrare.
Ero un po’ eccitato.



A San Frediano era riunito tutto il paese: c’era Don Rocco che consolava la mamma di Ilenia, il sindaco e il dottor Mariuz.
I pompieri erano appena tornati su, ma non sapevano come orientarsi e non trovavano la bimba.
“Ci andiamo noi, conosciamo le grotte” disse Cristian.
I pompieri ci guardarono attoniti. Trovarsi i fratelli Bortoli davanti a volte destabilizza e toglie un po’ di lucidità.
“Conosco alla perfezione il dedalo geologico di San Frediano e suppongo che Ilenia si sia nascosta nel Cunicolo della Mula, così chiamato perché assomiglia morfologicamente a una mulattiera”, intervenni.
Altri sguardi vacui.
Ma si doveva agire, e ci fecero scendere.
“Ma l’acqua?” chiese mio fratello.
“Non c’è acqua. Lo chiamano pozzo solo per la sua forma” lo tranquillizzai.
Ci fecero calare per gli otto metri di profondità. Preferirono rischiare mandando i fratelli menomati che lasciar morire una bimba di sette anni.
Appena toccammo terra sgusciammo fuori dall’ imbracatura e ci indirizzammo direttamente verso il cunicolo della mula.
“Sei sicuro di dove andiamo? Non è che ci perdiamo?” mi domandò Cristian.
“Tranquillo, conosco ogni singolo anfratto come tu conosci i nomi  di tutti i personaggi di Beautiful degli ultimi vent’anni”.
“Sei un figo” mi disse.
E rimasi di stucco.
Era lui il figo tra i due.
Io ero quello brutto, che escogitava tutti i modi per accopparlo.
Mentre andavamo, a passo lento per evitare di cadere, gli spiegai la valenza archeologica di queste grotte, la loro peculiare ubicazione e i piccoli segni di un passato preistorico.
Lui mi stava ad ascoltare.
Per la prima volta in trentadue anni mi stava badando e stava apprendendo.
Apprendendo da me.
Arrivammo al cunicolo.
“Chiamala” lo incitai.
E cominciò a urlare il suo nome.
Un gemito sgorgò da una crepa alla nostra sinistra.
Era lei.
Rannicchiata e tremante.
La aiutammo ad uscire; aveva un braccio rotto e una brutta sbucciatura lungo la gamba. Piangeva.
La prendemmo in braccio per ritornare indietro.
“Perché non hai risposto ai pompieri?” le chiesi un po’ severo.
 Avrebbe potuto essere fuori da ore, bastava poco per farsi sentire in quelle grotte.
“La mamma mi ha detto che non devo parlare con gli sconosciuti. E i pompieri io non li conosco. Voi sì”.
Mi rivelò fiera della sua insulsa obbedienza.
Che bello.
Avevamo salvato una bambina deficiente. Di sicuro il suo apporto alla società sarà misero. E io che pensavo che avremmo salvato magari la futura Montalcini. Se ci va bene, la sua massima aspirazione sarà quella di avere un ragazzo con l’ Audi.
Ritornammo alla bocca del pozzo.
“L’ abbiamo trovata” urlammo all’ unisono.
Un felice boato scese dal cono di pietra.
 La imbracammo e cominciarono a portarla su.
Non sapevo che dire.
Ero felice.
Da sopra le nostre teste si sentivano le grida di gioia, gli urrà dei pompieri e gli alleluia di Don Rocco.
E io e Cristian eravamo giù, illuminati dalla luce.
Noi.
Per la prima volta.
Noi.




Poi successe.
Le gambe fecero uno scatto.
Credetti di stare per cadere e allungai le mani per pararci dal colpo.
Cademmo.
Sulla mia testa.
“Cazzo” esclamai. Poi un urlo lacerante, la tempia mi pulsava.
Un altro sbandamento.
E un altro colpo.
Sull’ orecchio.
Cominciai a vedere annebbiato.
Mi girava la testa, un conato di vomito e in bocca un sapore acido e ferroso.
“Cazzo succede?”
Cristian non rispondeva. Forse lui stava male, per questo perdevamo l’equilibrio.
Cademmo di nuovo sulla mia testa.
Ormai non c’era più dolore.
“Muori bastardo”.
Sentii questo prima dell’ ultimo colpo.
Mi paralizzai.
Chiusi gli occhi.
E poi nulla.



Cristian fece ritorno in superficie dopo  venti minuti.
Aveva la mia testa ciondolante accanto alla sua.
Avevamo avuto un mancamento, una probabile fuga di gas che ci ha stordito e siamo caduti rovinosamente, spiegò.
Il fatto che non ci fossero tubature del metano che scorrevano nelle grotte di San Frediano a quanto pare lo sapevo solo io.
Ci portarono all’ ospedale. Ci visitarono e dichiararono il coma irreversibile per me.
Ci costrinsero a letto  per un paio di giorni, per verificare le nostre condizioni generali.
Mamma pianse.
Ma era anche contenta che Cristian non si fosse fatto niente.
Mio fratello fu accolto con tutti gli onori dell’ eroe: articoli su quotidiani che non aveva neanche mai sfogliato e interviste per le reti nazionali.
Andò anche in tv, nei programmi che venivano dopo Beautiful si presentava vestito bene e con una lacrima pronta all’ uso, mentre a me metteva un paio di occhiali, dei rayban dalle lenti nere come la pece, perché i miei occhi sbarrati potevano incutere un certo ribrezzo al pubblico in sala e a casa.
Ci guadagnò un po’ di  soldi e si comprò per prima cosa una bella Audi Grigio Metallizzata.
Full Optional naturalmente.
E io?
A nessuno mancavo.
Avevo corretto troppo congiuntivi per farmi degli amici.
Me ne rimanevo lì, sulla sua spalla, inerme, con gli occhi sbarrati e un bel paio di rayban. Sembravamo la versione freak dei Blues Brothers.
E sapete cosa mi rode di più di tutta questa storia?
Che lui ci sia arrivato prima di me.





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