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"Farfalle nello stomaco", un racconto per Lahar Magazine sull' #amore



Si chiamava Alessandro e aveva un buon odore.

La sua pelle aveva un profumo quasi selvatico, e dopo l’ora di educazione fisica trasudava bestialità.
Era alto e robusto, le spalle larghe, i capelli castani ondulati e indossava sempre un parka blu.
Ogni mattina arrivava alle 7.40 a cavallo di una vecchia bici da donna, con il cestino marrone che pendeva verso destra e una carta da gioco incastrata tra i raggi.
Sentivo il suo arrivo prima che imboccasse il vialetto per la scuola, come una sensazione di pizzicore sopra l’ombelico che mi faceva rimbalzare il caffelatte bevuto a colazione.
Appoggiava la bicicletta sempre vicino alla cabina del telefono, la chiudeva con una catena arrugginita e prendeva dal cestino lo zaino scucito che a malapena conteneva tutti i libri per la giornata.
Le guance mi si s’infiammavano e il mio stomaco vibrava al solo pensiero di lui.
Lo guardavo da lontano, perdendomi nella sua ombra, accarezzando la leggera brezza che muoveva al suo passaggio.
A ricreazione se ne stava con i suoi amici, lì quelli delle scale antincendio, mangiandosi un panino alla mortadella che si portava per merenda. Ogni morso era un’agonia, mi assaliva un desiderio profondo mi assaliva di esser masticata da lui, come quell’affettato avvolto dalle due fette di pane che stringeva deciso tra le sue mani.
Però, per lui io non esistevo.
Ero solo uno sguardo di una come tante che per vergogna si nascondeva e sognava.
Finché un sabato, all’assemblea d’istituto, si sedette vicino a me.
Trasalii.
Avevo i capelli sporchi e i pantaloni mi erano troppo stretti.
Sudai.
La mia amica Irene mi diede una gomitata per sfottermi.
Tossii.
Non lo guardai neanche per sbaglio, neanche con la coda dell’occhio.
Se ne stava accanto a me, immobile.
“Sei tu che hai questo buon profumo?” mi domandò.
Era a dieci centimetri da me. Mi annusava come fossi una torta al cioccolato e mi guardava dritto in faccia, penetrandomi insolente con quei suoi occhi scuri in attesa di una mia risposta, un mio segno di vita.
Non risposi.
Aspettava.
Le mie viscere attaccarono a scalciare e le farfalle che avevo nella pancia cominciarono a trasformarsi in enormi gru con le ali spiegate che vorticosamente volevano spiccare il volo.
Vomitai tutta la colazione su di lui.
Lo inondai di caffelatte e succhi gastrici, macchiando il suo bel parka blu che aveva in grembo.

Il mio stomaco non era riuscito a reggere così tanto amore.

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